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 Librairie L'Invit'à Lire, Paris Poétesse, écrivaine, elle produit des poèmes dès l'âge de 20 ans. Elle est l'auteure notamment d'À bout portant, Les femmes qui montent au ciel, Karina song.

 



 

 

 

 

Soutien Marie-Laure de Decker-Petition en ligne-

Soutien Boris Taslitzky-

Madame, Monsieur, chers amis,
Quelques  personnes m’ont dit qu’elles  avaient eu des difficultés à trouver la pétition sur www.petitions24.net <http://www.petitions24.net>
La pétition a été mise en ligne le 12/08/2015.
Elle s’intitule « Sauvegarder les œuvres de Boris Taslitzky à Levallois-Perret »
Merci de votre soutien.
Évelyne Taslitzky

 

 


 

Juin 2015

SOMMAIRE ET INFORMATIONS: artnews.com/toc/women-in-the-art-world/

OCTOBRE 2015

Chantal Akerman 

 lit Proust

29 janvier 2013 17:30 18:30 SéminaireAmphithéâtre Marguerite de Navarre - Marcelin Berthelot

 

 NOVEMBRE 2015

 

The double Star (l’étoile double) Avril 1864@ Julia Margaret Cameron

Adam et Eve. Vers 1890.@Eveleen Myers

 

                                                                                              @Madame Breton

 

 

 

                                                                                               @Alberto pizzoli

 

Petroliola déclaration de la nouvelle attitude sceptique et engagée par Pier Paolo Pasolini

Appunto 84. Il gioco

Ci sono delle persone che non credono in niente fin dalla nascita. Ciò non toglie che tali persone agiscano, facciano qualcosa della loro vita, si occupino di qualcosa, producano qualcosa. Altre persone invece hanno il vizio di credere : i doveri si concretizzano davanti ai loro occhi in ideali da realizzare.

Se un bel giorno costoro non credono più – magari piano piano, attraverso una serie successiva, logica o magari illogica, di disillusioni – ecco che riscoprono quel ‘nulla’ che per altri è stato sempre, invece, così naturale. [...] io parlo di coloro che un bel giorno, tirando le somme, vengono alla conclusione di aver scoperto il ‘nulla’ sociale. Niente ritiro dal mondo, quindi : anzi, partecipazione più fitta : tanto più fitta quanto più in malafede, necessitata dalla mancanza di alternative, e intesa come parodia. [...]

Lo stato d’animo di chi vive questa esperienza del mondo, capito finalmente come nulla, e con pazienza illuminata riaccettato nella pratica – è l’irrisione. Chi irride una parte del mondo sociale, mettiamo la borghesia conformista che senza capir nulla passa da una fase all’altra, dalla pace alla guerra, dal benessere alla strage, dalle abitudini all’annientamento totale, non può non irridere insieme anche chi sa questo. L’irrisione non può che riguardare tutta l’intera realtà.

E infatti è tutta la intera realtà che – nel momento che è irrisa – è riaccettata. [...] L’idea della speranza nel futuro diventa un’idea irresistibilmente comica. La lucidità che ne consegue spoglia il mondo di fascino. Ma il ritorno ad esso è una forma di nuova nascita : l’occhio luccica di ironia nel guardare le cose, gli uomini, i vecchi imbecilli al potere, i giovani che credono di incominciare chissà che.

Il y a des personnes qui ne croient à rien, dès leur naissance. Cela n’empêche pas ces personnes d’agir, de faire quelque chose de leur vie, de s’occuper de quelque chose, de produire quelque chose. D’autres personnes, en revanche, ont le vice de croire : les devoirs se concrétisent devant leurs yeux en idéaux à réaliser.

Si un beau jour, ces derniers n’y croient plus – si ça se trouve, peu à peu, à travers une série successive, logique ou peut-être illogique même, de désillusions – voilà qu’ils redécouvrent ce ‘néant’ qui, pour d’autres, a toujours été, au contraire, si naturel. [...] je parle de ceux qui, un beau jour, faisant le bilan, en viennent à la conclusion, qu’ils ont découvert le ‘néant’ social. Aucun retrait du monde par conséquent : au contraire, une participation plus active : d’autant plus active qu’elle est faite de plus mauvaise foi, nécessitée par le manque d’alternatives, et comprise comme parodie. [...]

L’état d’esprit de quelqu’un qui vit cette expérience du monde, compris finalement comme néant, et accepté, avec une patience éclairée, dans la pratique – est la dérision.

Quiconque se moque du monde social, disons de la bourgeoisie conformiste qui sans rien comprendre passe d’une phase à l’autre, de la paix à la guerre, du bien-être à la dévastation, des habitudes à l’anéantissement total, ne peut pas s’empêcher de se moquer aussi de ceux qui savent cela. La dérision ne peut que concerner toute la réalité.

En effet c’est la réalité toute entière qui – au moment où elle est tournée en dérision – est acceptée. [...] L’idée d’un espoir dans l’avenir devient une idée irrésistiblement comique. La lucidité qui s’ensuit enlève au monde tout charme. Mais le retour au monde est une forme de renaissance : l’œil a un éclat ironique, quand il se pose sur les choses, les hommes, les vieux imbéciles au pouvoir, les jeunes qui croient qu’ils commencent Dieu sait quoi »

Pétrole, traduction René de Ceccatty, Paris, Gallimard, 1995, p. 419-42.

 

 
= Non Violence GUERILLA-ART
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°° Calais @ Bansky-Londres@Bansky

 

 

 ADELE CAMBRIA (1931-2015)

Adele CambriaTrasmissione radiofonica della Rai « Voi ed io ». Roma, 14 febbraio 1977 (ANSA/ ARCHIVIO)

La dernière fois que j’ai vu Adèle Cambria, elle venait de rentrer des Etats-Unis. Nous étions chez elle à Rome, réunissant encore Lina Mangiacapre et Elisabeth Grabli. Toute notre admiration-notre amitié (notre pasolinité aussi), et nos sincères condoléances à Luciano Valli. Et puis ces deux textes d’Adèle sur Lina que je reproduis in extenso. Publié le 6 Novembre 2015

Per Nemesi

Portavano corone di gelsomino intrecciate sui lunghi capelli, biondi, fulvi, bruni e clamidi di velo trasparente e fiorito sui corpi aggraziati e giovani. Nonostante il nome mitico minaccioso che si erano date, “Le Nemesiache”, nulla era più innocente della loro provocazione: rievocare, a partire dall’immagine, il tiaso dell’antica Grecia, dove sublimi maestre, come Saffo, insegnavano alle giovinette musica, poesia,amore, prima di quel matrimonio che le avrebbe relegate nei ginecei. L’animatrice, l’ispiratrice, la filosofa, di quel collettivo femminista napoletano, nato in anticipo, nello scorcio finale degli Anni Sessanta, e che aveva eletto la bellezza come canone assoluto dell’esistenza, era lei: Lina (Il suo cognome era buffo, Mangiacapre, ma Lina lo portava con disinvolta eleganza). Ora che lei non c’è più, sono le sue immagini, le immagini, le visioni, che soltanto lei era capace di suscitare- e non sarebbe inesatto osservare che Lina-Nemesi ha firmato giorno per giorno la sua vita, e non soltanto la sua, come “opera d’artista”- sono quelle immagini di bellezza, di poesia, (di incubo o tragedia a volte), ad affollarsi per prime alla mente. In un tempo che ha “abiurato” la Bellezza, Lina ostinatamente la perseguiva: nel quotidiano e, fino alla radice del quotidiano, con una coerenza ineluttabile: lei produceva il Pensiero della Bellezza, e contemporaneamente, e disperatamente, disperatamente sola, (alla fine precoce e inaccettabile dei suoi giorni), lo praticava. Perciò, io credo, Lina allarmava, diffondeva allarme anche tra le donne “emancipate”, o, meglio ancora, femministe. Sottolineo l’avverbio”meglio”: è quello che voglio usare qui, non il suo contrario, “peggio”: che pure sarebbe tanto facile gettare in mezzo a questo discorso, inabissandolo nella volgarità. Perché ovviamente il femminismo non sarà mai, non per me, almeno, fino a quando vivrò, una cosa che può essere definita con l’avverbio “peggio”. E non lo sarà anche perché ho conosciuto, ho frequentato, ho amato, ho temuto, ho fuggito, (anche, talvolta), proprio lei, Lina. E Lina “ci” allarmava. Voglio precisare: allarmava noi (e forse assai più di quanto non spaventasse gli uomini, in realtà sempre morbosamente attratti dal sua sensualità proibita). Lina allarmava le donne, anche noi femministe, con quella sua immagine seduttiva e ironicamente “doppia”- maschio, femmina, androgino – a partire dai suoi abiti tutti inventati, e che, per decenni, hanno precorso la Moda: le tuniche, i pepli trasparenti, nella sua stagione “prima”, e poi il dark, il punk, i metallari, cioè il nero cupo, definitivo, siglato dal minaccioso acciaio di inquietanti fibbie, alamari, cinture, stivali. Il popolo della notte, le creature vaganti in folla dentro quegli enormi garages attossicati da fumi, da vapori chimici verdastri violetti, e rimbombanti di suoni insostenibili, quei luoghi che chiamano discoteche (e scusate la mia ripugnanza, senza dubbio generazionale), Lina li aveva partoriti dalla sua mente profetica assai prima che le mode ce li imponessero, precipitando sopra di noi dagli States o da Liverpool, Londra etc. Tra l’altro, l’avversione, l’ostilità sua “naturale”- ed era lei stessa a definirla “naturale” – per la lingua inglese, basterebbe ad escludere ogni sospetto di una impossibile impensabile “copiatura”. Quante volte, del resto, mi faceva “cadere le braccia”, replicando, ai miei suggerimenti di formichina saggia – tipo “Non sarebbe meglio che andassi qualche tempo sui set cinematografici, come aiuto, per imparare la tecnica, prima di girare un film tutto tuo?” – con una frase definitiva, pur nella sua “divina” dolcezza (la pronuncia, il tono, il sorriso, quella voce rauca e sussurrata, tutto era dolce e tragico, in lei.): ”Vedi Adele -mi diceva- io non posso imparare nulla, tutto quello che so, tutto quello che so fare, lo sapevo già nascendo”, “Ma ti sei pur laureata in Lettere e Filosofia col massimo dei voti e la lode!”, le opponevo (le prime volte), esasperata nella mia logica pignola e, chissà, “impiegatizia”. La verità era che la normalità, la medietà, era improponibile ad una creatura come Lina. Così com’era insostenibile un rapporto medio, normale, costante, con un essere “dell’altro mondo” com’era lei: i primi anni in cui la frequentavo – lei e le altre, le “divine fanciulle” del suo tiaso (Niobe, Elena, Dafne.) – dopo otto giorni di avido apprendimento e “pascolo celeste” in quell’universo di piaceri – ondeggiare di veli su corpi efebici, musiche e danze soavi, nutrimenti perfino divini (i cannoli di ricotta, le cassate napoletane), e la vista sul mare di Posillipo, dalla sua casa-altana – fuggivo per ritrovarmi davanti a un serial televisivo. Non so se ho reso l’idea (rozzamente, volgarmente, certo.). Il fatto è che la banalità fa parte dell’umano (credo.), ma Lina, per miracolo o tragedia, non poteva, non sapeva essere banale. Le mancava il gene della banalità. Ma non basta, me ne rendo conto, pur se mi dà una grande consolazione, “citare” le immagini di cui il suo passaggio su questa terra ci ha colmato (e lasciatemi usare, per lei, le parole giuste di una religiosità che non ha nomi o gerarchie). Per me, personalmente, i regali cominciarono dalla sua psicofavola, la prima, “Cenerella”, che vidi a Napoli nel remoto 1971: e poi si incastonò, dentro la riscoperta del Mito al femminile (che Lina ha donato, mai riconosciuta, a tutto il Movimento), come un anello d’oro che ci ha legato entrambe in una sorta di “nozze intellettuali” (mille volte fui tentata di rinnegarle e qualche volta, forse, le ho rinnegate.), la sequenza del Topo, della Serpe, e della vecchia Palma quasi centenaria. Accadde in una ardente estate calabrese, nel giardino d’agrumi di mia madre, (vigile e calma presenza femminile sapiente, quella di mia madre: che Lina adorava, divertiva e mi aiutava a capire. E rabbrividisco pensando che se ne andata appena pochi mesi dopo di lei). Noi due scrivevamo, all’ombra della palma che mio nonno aveva piantato per celebrare la nascita della figlia, la sceneggiatura del film ispirato al mio romanzo, “Dopo Didone”. Il film , cui Lina volle dare il titolo di “Didone non è morta” (un titolo che in questo momento non può non sembrarci augurale.), ripropone la storia di Didone ed Enea, raccontata in versi amorosi sublimi da Virgilio, come il conflitto lacerante di una donna “di potere” (per dirla con l’orrenda e spero già scaduta terminologia degli Anni Ottanta), divisa tra la passione per un uomo e la libertà e la responsabilità femminile verso gli altri, intesi come comunità anche politica. Didone si uccide, perché non potrebbe mai seguire Enea come una moglie, lei regina e condottiera del suo popolo (“E adesso che cosa farò? Seguirò la flotta dei Troiani, starò ai loro comandi?”): e, d’altra parte, Enea, il “pio Enea”, ha tentato di salpare furtivamente come un ladro, dal porto di Cartagine, verso il suo nuovo “destino di gloria” (la fondazione di Roma), e alla giusta furia della regina -“Lo presi morto di fame, gettato sul mio lido dalla tempesta, lo misi a parte del mio regno, pazza!”- risponde (prototipo del maschio in fuga, nei secoli dei secoli.): ”Io mai ti tenni discorsi di nozze, o pensai di sposarti”. Ecco, mentre scriviamo questa scena, un gran frastuono animale agita l’immoto paesaggio affogato nella calura (le tre del pomeriggio): e balza dal fogliame (al tronco della vecchia palma si aggrappava un folto cespuglio di gelsomino) un grande topo di campagna, inseguito dal sibilo di una serpe, che si snoda nell’aria disegnando per un istante, nero-verde e lucente nel chiarore meridiano, il segno del suo corpo, una lucida S, e poi sparisce all’inseguimento della preda. Paura, risate, mia madre che smorza l’eccitazione con la sua antica conoscenza dei luoghi, e degli “abitatori” dell’agrumeto: ”Non è una serpe, è una biscia”, sorride ironica. Ma per Lina, e alla fine anche per me, resterà sempre quella visione (che molto, ci penso ora, sarebbe piaciuta allo psicoanalista junghiano James Hillman), una “figura” simbolica della Regina furente ed offesa, che insegue il vile topo di campagna atterrito, il “pio Enea” Dicevo: non bastano le immagini, le illuminazioni, i ricordi, pure vivissimi come i miei, a dire l’essenza di Lina. Servono i suoi scritti, e, tra i suoi scritti, due, fondamentali, il “Faust-Fausta”, e la “Pentesilea”. (Su questa sua seconda opera, ho ritrovato una mia lettera abbastanza chiaroveggente, purtroppo, scritta per la presentazione del libro a Napoli, nel 1998, e che Manifesta pubblica a parte). “Faust-Fausta”: dal “romanzo filosofico”(come recita il sottotitolo del libro), Lina trasse in seguito un film, proiettato – come del resto era stato anche per “Didone non è morta” – alla Sorbona di Parigi: il suo “Faust” cinematografico fu poi invitato a Villa Medici, a Roma, nell’ambito del festival dedicato all’opera maggiore, “opera titanica” è stata definita, di Wolfang Goethe. Ma è il libro di Lina che qui mi interessa. Pubblicato da una casa editrice fiorentina nel 1990, soltanto ora, forse, ad una rilettura tragicamente “in assenza di Lei”, mi sembra di poterne penetrare il senso: è in queste pagine, quasi urlerei (in un inutile urlo tardivo), che l’Autrice ci consegna la chiave della sua esistenza. Ed a me, che rimpiangevo (per il mio imperdonabile “vizio” estetizzante), la sua prima stagione di pepli, veli, danze e corone e collane di gelsomini, Lina-Nemesi-Faust-Fausta fornisce la spiegazione di quel suo passaggio al nero, al cupo, al funebre, al “lutto di Elettra”. Così: ”Faust inizia il suo cammino maledetto; perde la melodia della voce; i suoi capelli teneri e ricchi d’oro diventano opachi; davanti agli occhi una sola strada. Il cupo e il nero tingono, unico colore,interno ed esterno” Perché la protagonista del romanzo, Fausta, ha chiesto “a Satana, in cambio della sua anima, di diventare uomo, di vivere il suo maschile, senza più i limiti di questa androginia che le impedisce una vera identità e poi la libertà”. E quando fa questa scelta, quando chiede di poter diventare Faust, Fausta ha già sperimentato la delusione dell’intelligenza oppure l’effimero della passione femminile (“Come uomo non ama di più gli uomini né desidera ormai le donne che disprezza”). Ma il dissidio originario della protagonista – un dissidio corpo-anima, cielo-terra, che la segna dalla nascita – consiste nel suo rifiuto di accettare, di riconoscere l’appartenenza ad una specie biologica, quella umana (che è anche, fatalmente, inguaribilmente “animale”): e di cui ha ribrezzo. “Vestivo di bianco con i capelli biondi e diafani, suonavo il violino confondendomi con gli angeli. Gli angeli non hanno sesso e certamente, poi, non hanno un corpo di donna. Ma il destino, mia madre, mi aveva dato un corpo, due gambe e dovevo camminare sulla sporca terra e mangiare.” Il rifiuto del corpo (ma lei diceva, scriveva, anche, soprattutto della mente, di quella mente che per esistere ha bisogno del corpo.) “Fausta ricordava tutte le sue rivolte: non voleva mangiare, non voleva essere mortale, fare i bisogni, non voleva camminare” E ancora: ”Dovevo fare presto, prima di diventare donna; dovevo andarmene con il mio corpo leggero, prima del rosso, del segno del sangue.” E c’era, fatale, nella pietra di fondazione del suo essere, oscura e luminosa come un diamante nero, il rifiuto analogamente estremo di una identità sessuale definita, etichettata: ”Non sono eterosessuale, non accetto lo schema di lasciarmi penetrare, essere madre di un uomo. Desiderare di fare entrare in me un altro corpo. Non desidero che qualcuno entri nel mio corpo, io sono compiuta, io desidero uscire, volare, raggiungere il cosmo.” E ancora: ”Non sono omosessuale perché io amo dell’altra ciò che non esprime, e che è al fondo delle infinite mie immagini, il femminile come desiderio, la bellezza, la tenerezza, un amore impossibile finché la nostra lotta non avrà ripreso il volto del femminile al di là della violenza e della durezza.” La soluzione avrebbe potuto essere, per Fausta-Faust-Nemesi-Lina, l’androginia psichica (spirituale, sacrale, fisica), come arricchimento e raddoppio della vitalità, delle possibilità, delle energie? Un’androginia positiva, accettata anche socialmente, culturalmente, come valore. E’ quello che sta tentando Pedro Almodovar. Ma, lui, è stato iscritto all’anagrafe con un nome maschile. Ed ha certamente quel gene della banalità, che a Lina mancava. Perdonaci, Lina.
Adele Cambria  (Tratto da Manifesta n°1 luglio 2002)

 

 

Presentazione di « Pentesilea » di Lina Mangiacapre 21 Mars 1998, Napoli

Mi hai aggredita con la tua storia, così crudelmente intrisa del mito, delle passioni, della amore e della morte della Regina delle Amazzoni, Pentesilea. Intrisa, ma non mascherata. Parlando di lei, scrivendo di lei, hai infatti parlato e scritto di te e di noi, che ti siamo tutte, in un modo o nell’altro, “mancate”. Noi del “femminismo storico”, noi affascinate da te nel remoto 1971(era quello l’anno in cui ti ho visto a Napoli inventare-rappresentare la psicofavola di “Cinderella”?), noi che, in un modo o nell’altro, rischiavamo tutte di essere prese nel tuo sortilegio, e non parlo soltanto delle ragazze del tuo “tiaso” saffico, che tu abbellivi di nomi mitici, Dafne, Niobe, Elena e di chiome ondeggianti e pepli e collane di gelsomini profumatissimi, e soprattutto di “anima” (a molte di loro però, riconoscilo, Lina, non essere impietosa prima di tutto con te stessa, a molte l’anima che tu hai evocato da profondità fino a quel momento forse incoscienti, è rimasta, come dire, felicemente avvinta). No, non parlo di loro soltanto, parlo di me: giornalista in qualche misura già “nota”, all’epoca, donna ferita dall’emancipazione degli anni sessanta, irresistibilmente attratta dalla sfida che tu rappresentavi, e disposta a difenderla, facciamo una bella frase, “davanti al mondo intero” (quante volte mi sono sentita dire, nel movimento ma anche nella società letteraria romana, “ma come, ma perché, ma Lina, ma perché si veste in quel modo, ma tu sei una persona seria.”), eppure: anch’io volevo sottrarmi, scampare al sortilegio, soffrivo – te l’ho confessato più volte – di quella abissale “assenza di mediocrità” nella vita quotidiana che è il tuo marchio. Non sei sostenibile, Lina. Confessato questo sentimento di impotenza (insufficienza), lascio che Pentesilea-Lina-Nemesi irrompa attraverso le onde del tuo libro, consacrato alla Regina delle Amazzoni (ed a te, ed alla nostra storia di donne degli ultimi trent’anni circa), fino alle soglie della mia percezione letteraria: credo che questo, Lina, sia il tuo testo più compiuto, la tua scrittura più “legittima”, e che ti legittima, a mio avviso (ma non sono un critico) sulla scena letteraria e non soltanto italiana. Fin dal bellissimo incipit – “La pianura è disseminata di cadaveri di donne, pezzi di corazze brandelli di carne.” – che subito plana, dopo poche righe che mi ricordano il Flaubert di “Salambò” (l’abbiamo scoperto e amato insieme tanto tempo fa), verso il primo piano di te,Pentesilea-Lina-Nemesi, più che affacciata, proiettata verso il mare di Posillipo da quel sublime balcone che abiti (quando il tuo dolorante nomadismo te lo consente. Da quando è morto tuo padre, tu non viaggi più come facevi, trasognata e, devo dirlo, felice, in quella lunga interminabile stagione dell’adolescenza che la sua intelligente devozione ti assicurava, tu, da quella morte, erri). E subentra la tenera memoria infantile di quando volevi giocare con lui nel gran letto, ma lui ,troppo rispettoso dei ruoli, ti cedeva ad altri (immagino un medico), perché impietosamente manipolasse il tuo corpicino per guarirti di una malattia che, fin dai tuoi primi anni di vita, aveva un solo nome: intolleranza della “normalità” che per l’appunto uccideUccide le persone come te, voglio dire, ma la tua fortuna (per noi) e, forse, la tua condanna (per te), è che la tua rabbia non si spegne, così come la tua volontà di bellezza arde e divampa e continua, continuerà ad abbagliarci fin quando avremo occhi (purtroppo mortali). Per queste ed altre cose ancora – potrei commentare la tua “Pentesilea” riga per riga, stupende le parole di amore e poi di rabbia per Elena – noi ti diciamo grazie. Sì, anche noi che ti siamo “mancate”.                 Adele Cambria 14 luglio 1998

 

 

BYE FEMINA!  1998_2015

 Publié le 7 décembre 2015

 

//Aux frontières, des hommes ont cousu leurs lèvres 

 

Par Catherine Jourdan Mise à jour le 11 Mars 2016

 

 

 

Et la vie continue,     feu nu mon fou ?

 

Et la vie continue, pénètre tout.  Evocations pures.

 

La salle de ce restaurant est pleine d’une vie ardente des fragments de verre. L’heure d’hiver qui parfois accable la pesanteur. La vie continue, et bourdonne au bout de la ville. Le cri d’une mouette de nuit vieille parmi les pigeons.

 

La vie continue, les onyxs et les substances bleues. La vie continue à une amie qui vous oublie si fort. Et l’était. Qu’en pensent tes yeux ? On les voit jouir du soir, on les voit jouir du jour.  Et la vie continue, saoule d’univers qui rit comme une enfant. Et la vie continue, manger dans la lenteur ou dort… Et tous les sons. Il perd son sang… Chaud encore et la mer s’élance.

 

 

 

Et la vie continue restaurée dans la régularité, présente dans une lumière de Paradis et les sifflets des trains. La pierre d’aimant danse et qui est immobile et le mouvement de ses plumes. Et la vie continue, la douleur rentrée et les stances de la flute à la terrasse d’un café. Meurt la peur.

 

 

 

Et la vie continue celle qui tourne, orpheline à peine sevrée. Peut-être l’oiseau couve, sa température s’élève. J’écoute le printemps prochain.

 

La vie continue, efface les lieux des couronnes sous les mares de sang augurales. Et la vie continue dans la paix des tombes dotées des passions humaines et l’inquiète source. Et la vie continue, je continue de t ‘élire. L’autre jour, tu resplendissais. Et la vie continue, un cœur mort a retrouvé ses battements. Et la vie continue, les monuments aux morts, les fenêtres ré-pavoisés et la militarisation de la vie et les incertaines transparences.

 

La vie continue, les dessins et les poèmes, les loupiotes et les bougies consumées, les fleurs mûries dans une serre, des bouquets dans de la cellophane, les photos de victimes… Un fonds documentaire et il fait jour.

 

Matérialiser l’inconcevable et les gages de larmes.                         Reprenons. Je n’ai pas compris tout de suite ce qui se passait. La chinoiserie musicale de jacques Offenbach. Ba-ta-clan ! Je réalise ce qui se passe. A peine l’ai-je deviné… J’étais aimable, élégante -Te souviens-tu… Couverte de poussières, je commence à voir des gens morts. La mezzanine élastique et les atttaches du trapèze et la réplique de tirs venue du balcon. D’autres sont serrés en boule. Leurs proies. La longue bâche blanche et nos muettes stupeurs.

 

Et la vie continue, les running de Ban Ki-Moon, et les talons aiguilles de Vivienne Westwood et les anneaux de leur message pour sauver ma progéniture. Qui déjà soupire.

 

Et la vie continue, le peu d’amis qui te rendent visitent dans ta maison.

 

Ta concierge, une voisine goutte à goutte. Et la vie continue. La mélodie de la ferveur, et le champ labouré et la justice climatique et ta page facebook. Qui replacent les bouquets, qui séparent les fleurs fanées des fleurs fraîches au mémorial spontané? Et la vie continue-la traversée de la vie, l’exposition de Christian Boltanski chez Marian Goodman dans une odeur de paille et de roses séchées qui enivre. Et la vie continue. Départ-Arrivée, balisés par deux installations de néons les grands rideaux contemplatifs sur lesquels sont imprimés des photos de famille-pour toute Porte… Et puis les bruits de clochettes : « la musique des astres et la voix des âmes flottantes ». Un doux carillon. L’idée de mémoire Faire-part dans un parterre de fleurs et qui s’altereront le temps de l’exposition. L’herbe souple misérablement coupée des prairies vertes. Et puis les paroles retrouvées que j’ai confiées à tes mains. Les clochettes elles aussi attaquées par l’érosion.

 

 

 

Et dans le mur ouvert, certains murs restent parsemés d’impacts de balles. Déjà des crèches napolitaines dedans les pastori et les présents passés, l’énoncé de l’humain dans le vieux jardin contient l’enfant terrible et les gestes de la danse et l’amour qui fixe des yeux et veille soigneusement.

 

Et tandis que s’avancent. Les gens les bêtes et les choses tout de suite. Je cherche un pays innocent dans l’illimité des nuits. Multipliant les leurres et les chiens errants. Aux frontières, des hommes ont cousu leurs lèvres.

Catherine Jourdan   publié le 29 novembre 2015

 

 

 

 

                                               

 

 


 

DECEMBRE 2015

 

ANNE GOROUBEN

Mon Kafka

1601 0407

2720

Éditeur Encre marine